Mirella Bolondi, autrice del libro “Terra di silenzi” e socia di CODA Italia ci scrive le sue riflessioni dopo essere stata al 2° compleanno dell’associazione, è sempre un piacere leggerla e c’è chi si ritroverà in alcune delle sue parole!
“È da qualche anno che lo so. Una decina direi. Più o meno dalla pubblicazione del mio romanzo: “Terra di silenzi”. Sono state le domande e i confronti con i lettori o i potenziali tali a svelarmelo. Succede quando ascolti qualcuno che ti ascolta e fai tuo il suo sguardo: ti vedi e impari a conoscerti, mentre la tua anima si sveste e si mette a nudo. Semplice e disarmante, anche se incomprensibile ai più: Io sono sorda e udente! Due cose che non possono stare insieme solo nel mondo fuori. In quello dentro possono coesistere e volersi pure bene.
Quando anni fa lo dissi a mia mamma, la vidi sbiancare in volto, come se fosse un’accusa e non il riconoscimento del suo buon operare. I miei genitori, infatti, sono entrambi sordi e mi hanno insegnato a essere udente, a vivere nel mondo dei suoni, a usare la mia voce. E mi parlano con la loro voce roca, anche mentre disegnano segni. A sostenerli un profondo senso di rispetto per la mia diversità e del suo valore, di cui sarò per sempre a loro grata. Io, nel mentre, ho imparato ad ascoltare il mondo anche con gli occhi e con le mani; a essere sorda, a essere loro. Ma soprattutto ho imparato cos’è l’amore.
Quando giorni fa a Milano abbiamo festeggiato il secondo compleanno dell’associazione dei figli udenti di genitori sordi (CODA) e sul palco sono sfilate diverse testimonianze, è stato davvero emozionante sentire raccontare la mia storia, nelle sue declinazioni più diverse: perché ogni storia si assomiglia e si distingue dalle altre, come quella di tutti i figli. E bello era quel sentire comune: siamo sordi e udenti e ciascuno in un modo unico e speciale! In un modo tutto suo.
Stare in mezzo agli altri CODA è sempre divertente. Incontrarsi assomiglia un po’ a una rimpatriata di cugini vicini e lontani, di tutti i gradi. Magari non ti conosci nemmeno, ma sai di appartenere alla stessa famiglia, lo senti sulla pelle, lo senti nelle mani. Già. Nelle mani…
Le loro si muovevano continuamente, disegnando segni nell’aria con grande disinvoltura, senza preoccuparsi se davanti c’era una persona sorda o un’udente come me. Alternavano voce e segni come qualcosa di molto naturale. Ma non lo era per me. Non per la mia storia, nella mia educazione. E così ridevo. Quella risatina imbarazzante, che muove l’altro a chiederti “Ti dà fastidio se ti parlo con i segni?” “No, in realtà mi piace… ma mi fa ridere… scusa è più forte di me. Io con i segni parlo solo con i sordi che segnano, non con gli udenti! Ma tu continua per favore se ti va. È un problema mio!”.
Un po’ come ritrovarsi al ristorante e vedere che gli altri convitati mangiano con le mani. Semplicemente non si fa. L’ha detto la mamma che vuole che usi la voce anche quando giochi con le bambole… “Perché tu sei udente!”. Lo dice la società imponendo a tutti di usare la voce, anche ai sordi, “perché solo così sei integrato”. “Vuoi usare anche la lingua dei segni? te lo concedo, ma non continuare a rompere con questa storia del riconoscimento!”. A te udente la lingua dei segni semplicemente non serve. Non serve?!
E io continuo a ridere.
È la bambina dentro di me che ride. Si può? Davvero si può? E l’adulto non ha più argomenti. “Perché no?” chi ha il diritto di decidere in quale lingua tu debba esprimerti?
Ed è così che, all’improvviso, qualcuno mi sorride “È bello sai, vederti parlare con i segni!”. Non me ne sono nemmeno accorta, ma le mie mani hanno cominciato a segnare parole in libertà, quelle che raccontano chi sono. E io sono sorda e udente. E tante altre cose insieme in realtà. Nel mondo dentro si può. Lo possiamo tutti. Basta ascoltare qualcuno che ti ascolta e provare a fare tuo il suo sguardo.”