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Zena Vanacore: l’amore è una cosa semplice

intervista a Zena Vanacore

Intervista di Michele Peretti a Zena Vanacore (figlio di Concetta Grazioso, CODA e autrice del libro “Diversa figlia di diversi“, a noi molto cara) – 1/12/2019

“Perché se sei felice, ogni sorriso è oro”. T. Ferro

Zena Vanacore è nato il 30 Luglio 1992 a Maddaloni (in provincia di Caserta) e cresciuto a Napoli, città dove ha trascorso l’infanzia e a cui è legato visceralmente. Zena, figlio di una CODA, deve a sua madre la conoscenza della Lingua dei Segni Italiana che ha acquisito per esposizione diretta. Si è laureato in Infermieristica presso l’Università Federico II di Napoli con una tesi sperimentale dal titolo: “Approccio infermieristico al paziente sordo, stato dell’arte, problematiche, limiti e possibili soluzioni”. La sua tesi nasce dall’esigenza di mettere a frutto una particolare esperienza personale, umana, linguistica, culturale ed emotiva. Ha collaborato al progetto “LIS/Braille” dell’Ordine Professioni Sanitarie, traducendo testi in ambito sanitario. Attualmente è collaboratore dell’Associazione Insegniamo e della DILIS Onlus come docente accreditato HECM. Si occupa di formazione in corsi ECM (Educazione Continua in Medicina) rivolti ai professionisti sanitari circa l’approccio alla persona Sorda in ambito clinico e assistenziale in ogni suo aspetto. Lavora altresì come infermiere presso l’ospedale AORN e di Alta Specializzazione Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, nella UO di Pediatria e PS. Pediatrico.

1. Se dovessi descriverti con tre aggettivi, quali sceglieresti?
È astruso capirsi quanto descriversi. Posso provare a farlo cercando di restare nei tre aggettivi richiesti. Mi reputo una persona curiosa, empatica, tanto nostalgica quanto sognatrice, ma soprattutto logorroica.

2. Diversa figlia di diversi. Cosa ti lega a questo libro?
Diversa figlia di diversi è il libro autobiografico scritto da mia madre. Il primo testo in Italia dedicato all’esperienza dei CODA. Quando mia madre iniziò ad abbozzarlo, avevo circa 5 anni. Ricordo le passeggiate che facevo con lei attraversando il centro storico di Napoli. La mia infanzia l’ho trascorsa al fianco di mia madre tra L’ENS, la comunità sorda e l’attività di Evangelizzazione che svolgeva per le persone sorde interessate alle verità scritturali. Ricordo perfettamente che quando eravamo in giro usava scrivere su una piccola agendina tutto ciò che ci circondava, l’antico centro della nostra città (oggi profondamente mutato) che le ricordava la sua infanzia. Mi raccontava cosa significavano per lei quei luoghi, come li aveva vissuti quando aveva la mia età, che valenza avessero e quanto ci teneva che anch’io li vivessi prima che venissero modificati o ancor peggio deturpati e dimenticati. Oggi, quando passeggio per il centro di Napoli, mi riaffiorano alla mente le parole che mi diceva. Noto le differenze rispetto a un tempo, ‘percepisco’ le stesse sensazioni che provavo da bambino, la sento ancora accanto a me. “Diversa figlia di diversi” funge da testimone di come la comunità sorda veniva vista, come i CODA venivano considerati e di quanto hanno sofferto e lottato per il riconoscimento della Lingua dei Segni in Italia. È un mezzo per rivendicare l’esistenza del popolo sordo e della nostra lingua, quella dei Segni e di come il ‘normale’ possa condannare ineluttabilmente il ‘diverso’. Non è un semplice libro autobiografico, è parte della mia infanzia, è un’eredità, il ricordo non solo dei miei nonni, che purtroppo non ho mai conosciuto, ma di tutte quelle persone che mia madre ha incontrato nel corso della sua vita. Persone che, invece di diventare un vecchio ritornello che nessuno canta più, continuano a vivere attraverso le parole del libro.

3. Quanto c’è di tua madre in te?
Credo tanto. A volte mi rendo conto di avere quasi lo stesso temperamento, con i suoi pregi e difetti. Ma soprattutto la forza che ho oggi la devo a lei. Mi ha insegnato a cavarmela sempre, anche quando non ci sarebbe più stata. La sua perdita è stata qualcosa che ha segnato tutti. Ha lasciato un vuoto incolmabile. Oggi mi ritrovo a lavorare fianco a fianco con le stesse persone con cui ha collaborato mia madre. Certe volte noto negli occhi delle persone che mi circondano un accenno di commozione. I modi, i toni o lo sguardo che assumo rimandano a mia madre. Il mio obiettivo è portare avanti ciò che aveva cominciato e cercare di tenere alto il suo nome.

4. Quando ti sei avvicinato al mondo dei sordi e alla LIS?
Ero piccolo e mia madre per prima cosa mi insegnò la dattilologia. Ci teneva tanto, mi correggeva e soprattutto mi faceva allenare. Quando desideravo qualcosa, mia madre me la faceva segnare prima in dattilologia e dopo mi dava il segno. Se lo eseguivo correttamente, allora ricevevo il mio desiderato premio. Altrimenti dovevo sforzarmi fin quando non ci riuscivo. Ricordo ancora un episodio: aspettavamo un autobus che ci riportasse verso casa. Nei pressi della fermata c’era una cartoleria e vidi un timbro con un animaletto sopra. Mia madre mi disse: “se riesci a segnarlo prima che arrivi l’autobus, te lo compro”. Per me diventò una sfida a tempo, ma alla fine ci riuscii. Insegnarmi la LIS non è stato semplice. Mia madre era vittima degli stessi pregiudizi che hanno i genitori di bambini sordi, ovvero: “se gli insegni la Lingua dei Segni, diventerà muto e non parlerà più”. Oppure rivolgendosi a me: “non fare come mamma, non parlare anche tu come i muti”. Un’amica sorda di famiglia, “nonna Anna”, per paura che io potessi crescere in un mondo senza suoni, mi comprava qualunque tipo di giocattolo sonoro. Per me segnare era naturale, non capivo perché anche gli altri udenti non conoscessero la LIS e mi ci volle del tempo per accettarlo.

5. Cosa significa per te essere interprete LIS?
Significa innanzitutto aver raggiunto un primo traguardo, un inizio e non una fine. Vuol dire seguire le orme di mia madre e so che ne sarebbe fiera. Vorrei spiegarlo così: “un segno è semiotico se contiene determinati requisiti: l’esistenza di un piano del contenuto, di un piano dell’espressione e che qualcuno ponga in essere la relazione tra significato e significante. Tale persona viene chiamata “interprete”. Insomma, non è un lavoro semplice, è articolato ma in grado di darti tante soddisfazioni. Essere interprete ti sprona ad avere una cultura generale, è il desiderio di ricercare il senso delle parole, di andare oltre e di saperlo trasmettere, come quando traduco testi di canzoni sia italiane che straniere.

6. Cosa apprezzi della cultura sorda e cosa invece ti piace meno?
Non mi sono mai posto questa domanda. La comunità sorda al pari di quella udente è fatta di persone. Credo che ognuno abbia pregi e difetti. Sarebbe riduttivo etichettare un’intera comunità. Apprezzo il fatto di “sentirmi a casa”, di conoscere persone sorde, con la S maiuscola, in grado di dirmi direttamente, senza giri di parole, ciò che pensano in maniera oggettiva. Tuttavia a volte il poco tatto potrebbe rivelarsi la nota negativa che stona con il tutto. Trovo pesante il continuo senso di competizione, la cosiddetta “teoria del granchio”. La comunità sorda non è così “allargata” come quella udente. Ostilità e inimicizie si percepiscono in maniera lapalissiana e spesso una cattiveria, benché inventata di sana pianta, può passare di “segno in segno” in maniera assai rapida. Ciò che apprezzo è il modo in cui una persona sorda, soprattutto se legata te, ti chiede chiarimenti in modo diretto senza badare troppo alle chiacchiere. Quando i sordi si affezionano, sanno realmente volerti bene. Provano un bene profondo, pragmatico. Mi concedo una libera licenza per etichettare la comunità udente: loro “sentono” ma non percepiranno mai il mondo allo stesso modo di una persona sorda.

7. Perché hai scelto di diventare infermiere?
In realtà è stato un caso guidato dagli eventi. Lascio sempre che gli eventi mi trasportino e credo fortemente che ognuno di noi abbia una missione dettata da un volere supremo. Ho sempre vissuto una dicotomia interiore: una parte di me che spingeva verso l’ambito umanistico, che peraltro non ho mai abbandonato, l’altro verso quello scientifico. Tra i tanti desideri che avevo da bambino e in armonia con il percorso di studi liceali, mi sarei visto nell’ambito della medicina di laboratorio. Feci diversi test d’ ingresso, tra questi quello per le professioni sanitarie e, dovendo indicare diverse preferenze inserii il CdL in infermieristica. Inaspettatamente vinsi il concorso e da lì cominciai il percorso che mi fece innamorare di questo lavoro. È un mestiere in continua evoluzione e che vede l’infermiere non più come un mero esecutore o una delle tante figure tra le corsie di un reparto, bensì come ricercatore e formatore, un professionista in grado di rispondere con competenza ai bisogni di salute di qualunque persona. Da qui l’idea di fare qualcosa per la comunità sorda, di potermi dedicare sia all’aspetto scientifico che a quello umanistico. Esiste infatti una branca denominata Nursing transculturale che appunto descrive la figura dell’infermiere come il punto di snodo fondamentale dal quale non si dispensa solamente l’assistenza, la cura della persona e la sua educazione, ma anche la presa in carico in maniera olistica, prendendo in considerazione anche gli aspetti antropologici e culturali dell’individuo. Grazie a queste scelte, oggi posso ritenermi soddisfatto dei risultati raggiunti, delle collaborazioni, dei progetti intrapresi e portati a termine e di avere ancora tanti altri obiettivi da realizzare.

8. Che cos’è la DILIS ONLUS?
Una squadra, una famiglia, un progetto in cui credo fortemente. La DILIS Onlus è nata dalla mente geniale di Chiara Sideri che ha realizzato tutto con una forza d’animo strepitosa. La nostra mission è quella di sensibilizzare alla sordità a 360°. Occorre che tutti sappiano, in particolar modo i professionisti sanitari, che ogni sordo è uguale a sé stesso e che ognuno sceglie le modalità comunicative che gli sono più gradite. Formiamo operatori sensibili all’altro, all’alterità culturale, in modo da rispondere con competenza, metodo ed etica a quelli che sono i bisogni della persona. Ad esempio con le persone sorde segnanti la LIS è il mezzo di comunicazione imprescindibile con cui erogare l’assistenza e quindi dispensare salute. L’obiettivo è dare soluzioni attuabili. Ad oggi riceviamo tantissimi messaggi di ringraziamenti da parte dei nostri discenti. Ci danno dei feedback molto positivi su come mettono in pratica i nostri insegnamenti. Questo significa che ciò che facciamo funziona.

9. Qual è il tuo ruolo all’interno dell’Associazione?
Beh, dato il mio carattere da “meridionale”, sono la persona più folkloristica del gruppo. Scherzi a parte sono collaboratore DILIS da poco più di un anno. L‘incontro con Chiara è stato uno dei più piacevoli mai avuti nella mia vita. Abbiamo sentito un legame molto forte, un feeling non solo per quello che facevamo ma soprattutto nel nostro modo di ragionare. Inoltre condividiamo l’amore per la comunità sorda e per la nostra lingua. Da poco sono referente DILIS Onlus del Centro e Sud Italia.

10. Quali sono ad oggi i servizi offerti alle persone sorde in ambito sanitario?
Sono svariati i servizi offerti in ambito sanitario. La maggior parte si concentrano nel Nord Italia, eppure risultano sempre pochi, tenendo conto dei molti pregiudizi che ci sono non solo nella comunità udente, ma ancor di più in ambito sanitario, soprattutto quello medico. Credo che nel mentre venga riconosciuta la LIS, ci sia bisogno di abbattere tutti i pregiudizi alla base delle barriere alla comunicazione e il cosiddetto fenomeno dell’audismo, lo stesso fenomeno che porta a non accettare, da parte del personale sanitario, la figura dell’interprete LIS nel momento dell’accesso in un qualunque studio medico. Nella mia tesi ho affrontato anche l’aspetto della Prevenzione Sanitaria: molti Sordi omosessuali, ad esempio, non sanno quasi nulla degli Auto Test per l’HIV reperibili in farmacia, altri non sanno in che modo il virus dell’HIV venga trasmesso. Alcune donne sorde sanno poco o nulla dei mesi della prevenzione. Ecco, tutto questo non dovrebbe esserci. Noi della DILIS ci stiamo occupando anche di questo. Sono del parere che si debba fare di più e senza spirito competitivo. Non dobbiamo dimenticarci che al centro ci deve essere sempre il benessere della persona e non una medaglia al merito.

11. Ritieni che l’impianto cocleare possa rappresentare una minaccia per la LIS e/o viceversa?
Assolutamente no. Come già ribadito all’ultimo Convegno Nazionale Sulla Lingua dei Segni tenutosi a Roma lo scorso novembre, l’IC in quanto ausilio dovrebbe essere un inizio, non una fine. L’IC è un ausilio, un supporto. Una volta spento, si ritorna a essere sordi e quindi non è un mezzo miracoloso come viene spesso presentato. Da professionista sanitario mi sento di dover tradurre tale concetto non solo dal punto di vista linguistico e cognitivo, bensì anche dal punto di vista psicologico, passando infine a quello scientifico. Ad esempio, in ambito sanitario sarebbe auspicabile una collaborazione con un’équipe interdisciplinare volta a seguire il paziente in tutto il suo percorso. L’iter riguarda l’abilitazione al linguaggio, la consapevolezza della sordità non come fattore negativo e la corretta informazione circa le diverse modalità comunicative che possono essere scelte. In America si seguono delle linee guida nazionali redatte da un’ampia gamma di professionisti sanitari, educativi, sociali, amministrativi e politici che si occupano di sordità infantile. In Italia tali linee guida sono regionali, per lo più indirizzate all’oralismo, ma soprattutto, la sordità viene inquadrata in un’ottica molto negativa. La tecnologia sta facendo passi da giganti, questo è certo, ma la Lingua dei Segni non potrà mai morire. Non ci è riuscito nemmeno l’oralismo!

12. Qual è il tuo motto?
Non possiedo un unico motto, ce ne sono due o tre a cui tengo tanto e che spesso mi danno la forza di andare avanti. Il primo è: “Per aspera ad astra”, letteralmente “dalle vie aspre alle stelle” ed è quello che mia madre ripeteva spesso. Mi ricorda che per arrivare ai traguardi è necessario lavorare molto, mettersi d’impegno, aspettarsi sempre dei periodi no e accettarli perché fanno parte della vita.
Un altro motto è la scrittura Biblica 1 Corinzi 13:13 che mi capitò di leggere nel giorno in cui mia madre morì. Mi ricorda che l’amore è la più grande arma e la più grande difesa che abbiamo nei confronti del tempo e del mondo. Così come può essere l’amore di una madre. Qualunque cosa noi facciamo, se la facciamo con amore, possiamo essere sicuri che resterà. La scrittura recita: “Ora, comunque, rimangono fede, speranza, amore, queste tre [cose]; ma la più grande di queste è l’amore”.
L’ultimo, ma non per importanza, è un pensiero di mia madre: “Io ritengo che sia molto importante significare qualcosa nella vita, questo io penso, cioè andare oltre quelle che sono le apparenze, andare oltre quelle che sono le classificazioni sociali, bisogna significare qualcosa nella vita. Ma non si vive solo per sé stessi, si vive anche per gli altri, altrimenti la vita non ha senso”.

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