Intervista a Luca Falbo di Michele Peretti – 11/01/2020
Coda (Children of deaf adults) è un acronimo internazionale nato negli Stati Uniti nel 1983 e scelto per indicare i figli udenti di genitori sordi.
Luca Falbo è nato nel 1985 a Milano da genitori sordi. Si è diplomato in informatica prima di iscriversi all’Università degli studi di Milano e laurearsi in comunicazione, approfondendo tematiche come la comunicazione non verbale. Da qui prende forma l’idea per la tesi: creare un laboratorio LIS in seno all’Università. Dopo la laurea ha effettivamente creato il laboratorio portandolo avanti per quasi tre anni, grazie anche al supporto del relatore. Prima della specialistica ha trascorso qualche mese a Bruxelles per intervistare più persone possibili e avere un quadro, a livello europeo, di come è vista la disabilità, quali erano gli interventi in atto e quali sarebbero state le previsioni di intervento future. Al rientro in Italia si è iscritto a Pedagogia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha terminato il percorso accademico con una tesi sperimentale, una ricerca durata quasi un anno e mezzo sullo stato della sordità in età scolare a Milano. Infine ha iniziato un master in disability management e mondo del lavoro frequentando parallelamente il corso interpreti presso l’ENS di Brescia. Oggi lavora per AIAS Milano come educatore, formatore e assistente alla comunicazione. È co-fondatore di Associazione Culturale Fedora e 4Inclusion, due realtà che gli consentono di trovare soluzioni per trasformare disabilità in abilità, creare accessibilità, fare formazione, corsi di sensibilizzazione e creare opportunità e proposte culturali accessibili per ciechi, ipovedenti e sordi.
1) Cosa significa per te essere CODA?
Essere CODA è aver provato sulla propria pelle cosa significa avere genitori sordi e vedere le difficoltà che affrontano quotidianamente. Non è qualcosa di prettamente correlato alla Lingua dei Segni. Utilizzare un’altra lingua costituisce solo una delle tante difficoltà. In fondo quello che rende i figli di sordi simili tra di loro è quella sensazione di trovarsi in una terra di mezzo. Noi capiamo i nostri genitori e le persone fuori dal nucleo familiare, ma queste ultime non capiscono i nostri genitori. Questo può sembrare irrilevante, ma a livello di sviluppo personale e nella formazione della propria identità non è così. Crescendo ci si rende conto che le difficoltà che si credevano comuni a tutti sono in realtà solo dei nostri genitori. Quando poi si realizza che le difficoltà esistono perché la società non sa come rispondere a un’esigenza di inclusione tutto viene stravolto. Allora un figlio si domanda: come mai io posso creare un ambiente comunicativo, relazionale e funzionale e gli altri no? C’è il rischio di diventare, in taluni casi, caregiver dei propri genitori. Per fortuna non è stato il mio caso, anche se ammetto che in qualche occasione mi sono ritrovato a esserlo. Sono convinto che essere CODA permetta l’acquisizione precoce di determinate competenze e capacità e una maggior empatia rispetto ad ambienti in cui la sordità non è presente.
2) Come e quando sei stato esposto all’italiano?
I miei nonni materni e i miei zii sono stati i primi a espormi all’italiano e poi ho proseguito andando a scuola. Dato che per me l’italiano costituiva la seconda lingua, a scuola non ero certo il migliore. Di fatti come spesso accade ai bilingui è necessario un certo lasso di tempo prima di capire come e quando usare correttamente entrambe le lingue. Mia nonna era una maestra e aveva pensato bene di darmi delle lezioni e di regalarmi dei libri per stimolare l’apprendimento della lingua italiana. Insieme a lei ho letto I Malavoglia, I Promessi Sposi, La Divina Commedia, Il vecchio e il mare e simili. Allora pensavo fosse un modo per torturarmi, in realtà a lei devo tantissimo e non potrò mai ringraziarla abbastanza.
3) A scuola o in altri contesti ti sei mai sentito diverso dagli altri?
Qualche volta ammetto di essermi sentito diverso. Ad esempio quando non ero considerato bilingue come chi aveva un genitore inglese e uno italiano. Oppure quando i docenti mi trattavano in maniera diversa perché pensavano non riuscissi a raggiungere ottimi risultati a causa dei miei genitori sordi e segnanti. Eppure ai colloqui, in mancanza di un interprete, ero io a dover indossare le vesti del mediatore. Mi sono sempre sentito normale, mi sentivo diverso solo quando erano gli altri a etichettarmi in tal modo. Per me la LIS costituiva semplicemente un altro canale di comunicazione, nulla di più.
4) Cosa apprezzi della cultura sorda e cosa invece ti piace meno?
Apprezzo la lingua che mi ha permesso di avere un canale privilegiato di comunicazione, di allargare la mia cerchia di amicizie, di acquisire competenze che altrimenti mi sarebbero state precluse. Apprezzo meno il fatto che talvolta non so bene dove collocarmi: tra gli udenti ho qualcosa che mi distingue (la LIS) ma tra i sordi, nonostante le mie competenze linguistiche e conoscenze culturali, sono considerato comunque udente. Qualche volta questa situazione diviene difficile e complessa da gestire, se consideriamo che ho scelto di lavorare con la LIS e con le persone sorde. Il fatto poi che la società abbia chiuso le porte alle persone sorde per anni e anni ha creato molto rancore e malumori.
5) Sulla base della tua esperienza quali sono i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e italiano)?
Gli studi dimostrano che l’uso di un canale comunicativo visivo-gestuale favorisce una maggiore flessibilità mentale, attenzione selettiva e consapevolezza dell’altro. Inoltre i bilingui bimodali sono in grado di usare entrambe le lingue (lingua vocale e lingua segnica) contemporaneamente, cosa che non accade nel bilinguismo unimodale. Molti hanno definito me, così come altri figli di sordi, un ponte tra due culture. Pensando a questo – rubando una battuta a un’amica – non mi sono mai sentito un ponte che è fisso, immobile, immutabile. Considerando l’esposizione a due lingue, essendo udente tra udenti e sordi e potendo comunicare con entrambi, non mi è mai capitato di sentirmi fermo né tantomeno immobile.
6) C’è un episodio legato al tuo vissuto che vorresti condividere con noi?
Ci sono due episodi che racconto spesso. Nel primo ero in treno con mia mamma e stavamo tornando dalla Calabria. Eravamo seduti in uno scompartimento a sei posti insieme a due ragazzi. Io e mia madre stavamo segnando, quando a un certo punto il ragazzo ha detto alla ragazza: “stanno parlando con le mani” e la ragazza ha risposto: “sono sordomuti”. Io ho glissato sull’uso di “sordomuti” perché non mi sembrava il caso di intervenire. Il ragazzo mi ha però poi stupito dicendo: “che città è sordomuti?”. A quel punto prima di tradurre tutto l’episodio a mia mamma le avevo detto che le avrei riferito il tutto a patto che lei non avesse riso. Inutile dire che mia madre non era riuscita a rispettare la promessa: lo scambio di battute era troppo divertente. Nel secondo episodio eravamo in un negozio in Belgio. Al momento di pagare, il cassiere ci chiese se fossimo di lì o se io e i mei genitori stessimo usando la Lingua dei Segni del nostro Paese di origine. Stupito, perché poco abituato a questa attenzione, chiesi se conoscesse una Lingua dei Segni. Mi rispose di no, ma che in Belgio a scuola insegnano che esistono lingue parlate e segnate e che lì ce ne sono ben due riconosciute ufficialmente alla pari delle lingue vocali: il francese belga e il fiammingo. Questi due eventi lasciano spazio a molte riflessioni. La più importante che mi è venuta in mente è che in un paese civile non si nasconde un qualcosa di così importante come la Lingua dei Segni, non la si denigra né la si combatte, ma la si accetta in virtù di una libera scelta della persona. La lingua può rivelarsi una ricchezza, uno strumento di lavoro, un percorso terapeutico e molto di più.
7) Diventare Interprete LIS: scelta o senso del dovere?
Sicuramente una scelta. Ad oggi non sono ancora interprete, manca un mesetto all’esame. Tutto è iniziato quando sono andato a vivere da solo e ho quindi smesso di usare quotidianamente la LIS. Certo la usavo comunque ma non quanto prima. Questo mi ha spinto a intraprendere il mio personale percorso di studi sulla Lingua dei Segni e nonostante mi senta madrelingua ho imparato tantissimo. Ora che sono a un passo dal concludere il mio percorso, sono felice della scelta che ho fatto e ho ritrovato la mia identità a cavallo tra due lingue e due culture.
8) Assistenti alla Comunicazione in ATA: una prospettiva plausibile?
Lavorando molto nelle scuole ho capito che in Italia tutto è possibile ma è complicatissimo da implementare. Certo, spero che la figura dell’assistente alla comunicazione si diffonda, ma se gli studenti a scuola hanno massimo 10/12 ore di assistenza (salvo i casi di ricorso a un avvocato con tutto quello che implica) a cosa serve? L’assistente a scuola dovrebbe esserci per tutto il monte ore, in tutti i cicli di studio e non solo per lo studente. Il lavoro più grande si fa sull’ambiente. La persona sorda sa benissimo quali sono i suoi limiti, ma se la società continua a vedere la Lingua dei Segni come l’ennesimo problema faremo ben pochi passi avanti. La Lingua dei Segni è una ricchezza e coloro che si oppongono a questo combattono contro i mulini a vento. Mi spiace per loro, ma prima o poi la situazione cambierà anche in Italia.
9) Di cosa ti occupi in quanto Pedagogista?
Arrivare a essere pedagogista è stato per me l’apice di un lungo percorso e tutto quello che mi ha dato non me lo sarei mai aspettato. Ho massima libertà operativa, nel senso che non sono legato alla didattica ma posso utilizzarla per raggiungere gli obiettivi che ho fissato con i miei educandi. Lavoro principalmente sulle autonomie, in particolare sui disturbi legati alla comunicazione. Oltre a questo, l’essere pedagogista mi ha portato a essere formatore e per un certo periodo ho lavorato come docente universitario. Con il tempo ho aggiunto anche il ruolo di consulente in vari ambiti, non solo quello scolastico.
10) Perché hai scelto di formarti come esperto Ma.Vi.?
Inizialmente sono stato incuriosito da un gruppo di lavoro formato da M. Michela Sebastiani ed Emanuela Valenzano, rispettivamente una pedagogista e una linguista, entrambe interpreti LIS. Le due hanno ideato un nuovo protocollo di visualizzazione grafica, un metodo funzionale all’acquisizione di competenze di lettura, scrittura e comprensione. È stata una delle scelte migliori che abbia mai fatto. Posso dire di aver cominciato per curiosità e di aver proseguito perché è uno dei metodi migliori che io abbia mai sperimentato. Da quando ho preso il primo attestato ho infatti implementato i MA.VI. nei programmi che utilizzo con i miei educandi sordi e non solo. La formazione Ma.Vi. è stata inserita di recente sulla piattaforma Sofia del MIUR rivolta ai docenti. Un riconoscimento importante per le due ideatrici del metodo che hanno vissuto quotidianamente con le persone sorde nel periodo dello sviluppo.
11) Chi è il Disability Manager?
Il Disability Manager è una figura professionale che si è appena inserita nel panorama italiano. Le sue mansioni vanno dalla pianificazione, ricerca e selezione, inserimento e mantenimento in azienda, fino allo sviluppo professionale e organizzativo della persona e dell’azienda. Si occupa inoltre di formazione, analisi del lavoro e dell’azienda rispetto alle normative vigenti in tema di assunzione (articolo 14 o legge 68/99 ad esempio), valutazione del potenziale e adeguamento dell’ambiente di lavoro. Mi piace pensare che sia una di quelle figure capaci di dimostrare quanto le persone con disabilità non siano figure marginali della società o “ruote di scorta”. Con i giusti compromessi possono fungere da motore trainante alla pari di chiunque. C’è un potenziale inesplorato e speriamo che con questa nuova figura qualcosa cambi nella cultura comune. Credo sia il momento di smetterla di voltarsi per strada perché c’è una persona sulla sedia a rotelle o qualcuno che segna. Non considero i miei genitori disabili perché sordi, idem per tutte le persone sorde che conosco. La sordità diventa disabilità solo nella relazione con una società non inclusiva e che crea barriere più o meno consapevolmente. Ad esempio mettere sui mezzi pubblici il nome della fermata è un’accortezza che permetterebbe alla persona sorda di non necessitare di alcun supporto. Non elimino la condizione di sordità, bensì abbatto una barriera.
12) Qual è la mission dell’Associazione Culturale Fedora?
Anzitutto promuovere l’accessibilità in ambito culturale per persone con disabilità sensoriale, quindi ciechi, sordi e ipovedenti, sviluppando attività di sensibilizzazione e fornendo consulenza per lo sviluppo di attività accessibili e inclusive. Questo lo facciamo tramite l’organizzazione di eventi, come quello di dicembre 2019 “Ti invito a Fedora” o i corsi di sensibilizzazione alla LIS. La vera sfida è che tutto quello che produciamo deve essere accessibile per persone cieche/ipovedenti e/o sorde. Talvolta le strategie ottimali messe in campo in un caso possono essere una barriera nell’altro. Bisogna trovare compromessi e finora è sempre andata bene. Dopo il nostro primo evento, una mostra fotografica, è stato grandioso vedere mia mamma discutere dell’evento con una persona cieca. In quel momento ho realizzato che l’accessibilità era possibile e quel successo continua ad accompagnarci in tutte le nostre attività ed eventi. Un’emozione simile l’ho provata a dicembre vedendo i sordi sulle pedane sensoriali fruire di un concerto live, ballare, interagire con gli artisti, fare domande sulla musica.
13) Quale futuro per la LIS nell’era dell’impianto cocleare?
Ho sempre sentito dire che uno esclude l’altro, così come nel 1880 si diceva che “il gesto uccide la parola”. Baggianate! In tutto il resto del pianeta molte persone con IC usano una Lingua dei Segni, sono bilingui e non vedo perché non sia possibile anche qui. Oltre a questo la LIS non è la lingua esclusiva dei Sordi. Può essere un utile strumento di lavoro in molti altri ambiti e situazioni. Più se ne parla, più si usa e più sento che la LIS ha un futuro nonostante sia l’era dell’impianto cocleare.
14) Qual è il tuo motto?
Ne ho due. Il primo è di Samuel Beckett: “Prova ancora, sbaglia ancora, sbaglia meglio”. Il secondo è: “chi siamo non cambia mai, cosa siamo non smette mai di cambiare”. Quest’ultima frase non so di chi sia, eppure mia nonna me la ripeteva spesso.