Intervista a Fulvia Carli di Michele Peretti – 17/02/2020
Coda (Children of deaf adults) è un acronimo internazionale nato negli Stati Uniti nel 1983 e scelto per indicare i figli udenti di genitori sordi.
Fulvia Carli è nata a Parma e ha vissuto a Milano, Firenze e Roma. Suo padre era sordo, sua madre udente segnante. Nata e cresciuta nel mondo dei sordi, ha affermato: “casa nostra era un porto di mare con un continuo via vai di amici sordi”. Si è laureata in Lingue e letterature straniere alla Sapienza di Roma, ha conseguito un diploma di interprete parlamentare in inglese e francese alla Scuola interpreti di Firenze e poi anche quello di interprete LIS a Roma. Ha insegnato francese per oltre 30 anni nella Scuola media statale per sordi di Roma. Nel 1972 è stata la prima interprete di Lingua dei Segni ad apparire su Rai2. Presentava un programma dedicato specificamente ai sordi: “Nuovi Alfabeti”, che è durato un triennio. Più tardi, sempre in Rai, ha svolto il ruolo di interprete al Tg1. È stata inoltre interprete personale di alcuni Presidenti dell’Ente Nazionale Sordi, in Parlamento dell’on. Bottini, di papi e di Presidenti della Repubblica, formatrice di interpreti in corsi organizzati da associazioni di categoria, docente di analisi comparativa ai corsi di abilitazione e specializzazione per professori di ogni ordine e grado organizzati dall’Istituto “Magarotto” di Roma. In pensione da qualche anno, si definisce una “diversamente giovane”.
1) Cosa significa per te essere CODA?
Non mi sono mai posta questa domanda, vivere con un padre sordo e una madre udente è stata la mia condizione, il mio mondo. Oggi, per la prima volta, in questa intervista, mi viene posta questa domanda, cercherò di esprimere il mio feeling. La vita mi ha dato questo privilegio magnifico, me ne rendo conto ora. Ho avuto opportunità che i miei coetanei, figli di genitori udenti, non hanno avuto. La Lingua dei Segni mi ha permesso di sviluppare alcune importanti competenze che mi sono servite negli anni e negli studi come usare strutture linguistiche diverse da quelle della lingua vocale. Osservando chi segnava ho imparato a cogliere sfumature espressive e posture altrettanto valide come parole e a sviluppare la capacità di visualizzare sempre ciò che mi viene detto. Quando parlo con una persona udente devo guardarla in viso, non mi bastano le sue parole, devo vedere anche il suo linguaggio non verbale. Ho una memoria visiva più che uditiva.
2) Sei stata esposta sin da subito alla Lingua dei Segni Italiana?
Da che ho memoria, mia madre mi ha attribuito il ruolo di “orecchie di papà”. Mio padre era segnante con i suoi amici mentre in casa parlava. Aveva un’ottima labiolettura. Io lo guardavo quando era con gli amici, praticamente tutte le sere, mentre tra di loro “facevano la mimica”, così veniva definita un tempo la Lingua dei Segni. Ero come una spugna, apprendevo parole e intere frasi. Piano piano anch’io “facevo la mimica” con i suoi amici e la cosa mi gratificava veramente. Frequentavo due volte alla settimana il circolo di via Boscovich a Milano. Giocavo con i bambini sordi e udenti figli dei soci del circolo. Tra di noi “gesticolavamo”, altra definizione della Lingua dei Segni, era l’unico modo per capirci tutti. Oltre alla scuola il mondo udente per me era quello degli zii, dei cugini, del nonno. Tuttavia si trattava di frequentazioni sporadiche.
3) Chi era Edgardo Carli?
Non è semplice fissare pensieri su mio padre. Vorrei essere obiettiva, ma credo che non ne sarò capace. Lo ricordo sempre con me e io sempre con lui. Lo ricordo alla Camera del Lavoro a corso di Porta Vittoria a Milano, quando andava a esporre i problemi di alcuni amici sordi sottopagati o licenziati. Ascoltavo e traducevo parola per parola quello che il sindacalista diceva. Un modo veramente improprio di traduzione, ma avevo cinque anni e non avevo idea di cosa volesse dire “tradurre”. Intanto, recepivo lezioni di democrazia sentendo ciò che veniva detto. Mio padre, da che aveva perso l’udito, si era dedicato completamente alla causa dei sordi. Lascio i nostri ricordi solo per me e traccio il suo percorso di vita. Nel 1943 prese contatti col P.C.I. di Parma, la sua città dove si era trasferito da Milano all’inizio della guerra. Entrò in clandestinità col nome di Sandro. A guerra finita fu congedato col grado di Commissario di Battaglione e Vice commissario politico della 12° Brigata Garibaldi. Fu uno dei Membri della Commissione dei 10 che fondò l’ENS. Lavorò come giornalista all’Unità, redazione di Milano, pur restando legato all’ENS come volontario. Fondò con Francesco Rubino “Rinascita”, giornale che era rivolto ai sordi italiani. Alcuni anni dopo dovette scegliere se continuare a fare il giornalista oppure occuparsi completamente della causa dei sordi. Optò per la seconda. Andò in Toscana dove organizzò le nove sezioni provinciali ENS. Nel 1955 fondò la Scuola di Odontotecnica con insegnanti provenienti dalla scuola professionale Leonardo da Vinci di Firenze. Nel 1962 fu chiamato a Roma alla Sede centrale dell’ENS come dirigente del dipartimento preposto all’Assistenza e al Collocamento al lavoro. Si impegnò affinché la L. 482 del 1968 vedesse la luce. Dato saliente è l’art.7: “..per l’assunzione obbligatoria al lavoro dei sordomuti si applicano le disposizioni della presente legge nonché gli artt. 6 e 7 della L. 13/3/1958 n.308…”, riferendosi all’accesso alle pubbliche amministrazioni e ad aziende private. Il suo lavoro fu quello di intervenire, sia a Montecitorio che in Senato, incontrando deputati e senatori del suo partito e di altri gruppi politici, spiegando loro l’importanza di prevedere un articolo specifico della legge in fase di elaborazione e riguardante le persone sorde. Scuola e lavoro per lui erano il passaporto per la crescita sociale della comunità sorda. In questi incontri spesso ero la sua interprete. Avevo finito la scuola per interpreti vocali e sapevo come e cosa dovesse fare una interprete. Il 21 settembre 2019 il Comune di Parma ha dedicato un parco a Edgardo Carli. Un riconoscimento sollecitato dalla comunità sorda e caldeggiato anche da Associazioni partigiane. Mio padre ha dedicato sessant’anni della sua vita ai sordi e ha sempre rifiutato onorificenze e riconoscimenti. Suo malgrado, gli è stato intitolato un parco nella sua città.
4) Quali sono i valori che ti ha trasmesso?
La sua vita è stata per me un esempio costante. Da lui ho imparato cosa fosse la Democrazia, non solo in ambito politico ma applicata al vivere quotidiano. Mi ha insegnato inoltre il valore della Libertà, il significato della Solidarietà, della Tolleranza e dell’Integrazione. Me li ha trasmessi vivendoli. Valori inalienabili che lo fecero entrare nella Resistenza.
5) A scuola o in altri contesti ti sei mai sentita diversa?
No. Mi sono sentita a mio agio sia nella comunità sorda che in quella udente. Il mio mondo era così e la mia vita si svolgeva e si svolge serenamente senza sentimenti di diversità. Per me era un punto di orgoglio sapere e poter comunicare in due diverse modalità. I miei compagni di scuola conoscevano la mia vita. Studiavamo da me e spesso mio padre interveniva per chiarirci alcuni passaggi ostici di Dante o di Petrarca. Per i miei compagni era un piacere avere un adulto disponibile e capace di dare una bella mano in situazioni di stallo. Le uniche situazioni “comiche” erano quelle che capitavano quando uscivo con amici sordi e sull’autobus segnavamo. Spesso il commento degli astanti era: “che peccato, così carina e sordomuta!”. Io traducevo il commento agli amici e ridevamo, poi quando dovevamo scendere dicevo ad alta voce: “permesso, permesso, è la nostra fermata” e le anime pie che prima mi avevano compatita restavano a bocca aperta o mi dicevano: “ma tu ci senti!” e io sfoderavo un bel sorriso.
6) Cosa apprezzi della cultura sorda e cosa invece ti piace meno?
La cultura sorda è un mio bagaglio che continua a crescere nel tempo. Apprezzo: la pervicacia di una comunità che combatte affinché alla Lingua dei Segni Italiana venga dato il riconoscimento legale; la capacità creativa in ogni ambito; il forte senso di amicizia che pervade i rapporti tra di loro e la disponibilità all’aiuto reciproco; gli studi che sono fioriti in questi decenni e i libri di autori sordi. Ciò che mi piace meno è l’atteggiamento “sordo” che ancora sopravvive in alcuni ambienti. Penso che queste persone dovrebbero lavorare sull’autostima al fine di raggiungere una miglior autonomia e affrancarsi sempre di più dal mondo degli udenti.
7) Quali sono i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e italiano)?
Crescere bilingue mi è stato di aiuto quando ho studiato lingue all’università. Possedevo la leggerezza della comparazione linguistica e ho goduto di notevoli vantaggi nel corso di interprete vocale. La Lingua dei Segni è il mezzo di comunicazione che mi è più congeniale. Mi trovo a volte a usare una frase segnata anche con interlocutori udenti. Mi sembra più attinente al pensiero che sto esprimendo, ma poi lo devo tradurre vocalmente. I miei amici non si stupiscono, sono abituati a questi miei percorsi e aspettano che lo ripeta a voce.
8) C’è un episodio legato al tuo vissuto che vorresti condividere con noi?
La prima volta che mi hanno issata su una sedia per tradurre i discorsi delle autorità. Non racconto qualcosa di nuovo, ne sono certa, ma è il “mio” ricordo più significativo. Avevo 10 anni ed ero andata a Grosseto con mio padre per l’inaugurazione ufficiale della sezione ENS. L’interprete non si era presentata e questo aveva scatenato il panico tra gli organizzatori. Presidente e consiglieri confabulano poi mi guardano e segnano: “tu fai l’interprete”. Io mi sentii orgogliosa per l’investitura datami. All’inizio filò tutto liscio, il sindaco fece il suo discorso, il vescovo benedì tutti, poi prese la parola il rappresentante del prefetto. Nel suo intervento si espresse con termini che non riuscivo a capire pienamente, allora decisi di fare io il discorso, infischiandomi di quello che lui stava dicendo e che io non sapevo decifrare. Promisi lavoro, aiuti, assistenza per tutti. Alla fine ci fu una ovazione per questo signore e io ero soddisfatta del mio risultato. Mio padre, ottimo labiolettore, aveva seguito ciò che l’oratore diceva e poi mi guardava, scoprendo così il mio imbroglio. Venne verso di me, mi fece scendere dalla sedia e mi disse: “Fulvia, non farlo mai più”. Io mi giustificai dicendogli che ero una bambina e che certi paroloni non li capivo, ma mio padre imperterrito mi ripeté di non farlo mai più. Senza saperlo mi aveva dato la prima lezione di etica professionale dell’interprete.
9) Diventare interprete LIS: scelta o senso del dovere?
La mia è stata una scelta. In fin dei conti avevo studiato anche per diventare interprete parlamentare. Ci sono riuscita entrando in Parlamento al seguito dell’on. Bottini.
10) Come pensi si sia evoluta nel tempo la figura dell’interprete LIS?
Credo che la mancanza di corsi universitari preposti alla formazione degli interpreti LIS crei disparità di percorso. Attualmente esistono corsi in varie città, organizzati da associazioni con i protocolli i più disparati. Si dovrebbe giungere innanzitutto al riconoscimento della Lingua dei Segni e così si porrebbe fine alla credenza che continua a sopravvivere: chi sa segnare sia automaticamente un interprete e che tutti i figli di sordi siano interpreti provetti. Se la responsabilità formativa passasse all’Università con un programma univoco, il percorso sarebbe migliore e l’offerta sicura. Io sono stata una di quelle “interpreti” che sapeva segnare perché cresciuta in un milieu sordo, ma avevo dieci anni. Crescendo ho frequentato la scuola interpreti e mi sono diplomata. Ho potuto applicare così le tecniche e le competenze della traduzione anche alla Lingua dei Segni. Devo riconoscere che ANIOS, l’associazione degli interpreti LIS, organizza da molti anni seminari e workshop volti all’approfondimento e al potenziamento della professione. ANIOS si è fatta carico di un compito veramente oneroso. Devo dare atto al merito di tutti coloro che l’hanno diretta dalla sua fondazione in poi.
11) Com’è stata la tua esperienza di insegnante di francese a studenti sordi?
Insegnare francese a studenti sordi ha impegnato un lungo percorso della mia vita. È stata un’esperienza che mi ha spinta a riprogrammare e rimodulare quanto appreso all’Università al fine di offrire ai miei studenti il piacere di imparare, partendo da zero, un’altra lingua straniera. Alla fine del triennio scrivere correttamente una composition o un résumé era l’obiettivo centrato dalla maggior parte di loro. Puntavo sul loro uso e conoscenza della LIS per poi condurli al francese, mettendo così basi solide senza il tramite dell’italiano. Usavo molto materiale visivo e creavo con loro, a seconda della classe, anche un vero e proprio libro di testo personalizzato. Partire dalla LIS per arrivare all’acquisizione di un’altra lingua è stato il percorso che ho voluto usare in un periodo in cui l’oralismo puro imperava nelle scuole per sordi. Tuttavia facevamo anche letture in lingua e insegnavo loro canzoncine e filastrocche. Durante le gite scolastiche i ragazzi si divertivano a cantare tutti assieme Frère Jacques e Alouette, con disappunto dei miei colleghi che dovevano subire. Sono stati oltre trent’anni di lavoro con centinaia di ragazze e ragazzi che ora incontro su facebook. Alcuni di loro mi scrivono frasi in francese e ciò mi diverte.
12) Qual è il tuo motto?
Non importa vincere sempre, l’importante è non arrendersi MAI!